La musica che viene dal silenzio.

La Musica che viene dal silenzio

 In generale si suole dividere le opere di Beethoven in tre periodi stilistici. Gli anni giovanili di Bonn sono il periodo di preparazione. Negli anni dal 1793 fin verso il 1814 si concreta quello che potremmo chiamare lo stile creativo del periodo di mezzo di Beethoven, paragonabile al mezzogiorno della vita, mentre gli ultimi tredici anni esprimono quella trasfigurazione e quel coronamento che viene indicato brevemente col nome di «ultimo Beethoven». Il periodo centrale porta una realizzazione geniale delle forme tipiche allora in uso, ma non vi si trova ancora traccia di rottura rivoluzionaria o di superamento delle forme preesistenti. Solo nell’ultimo periodo creativo Beethoven ha trasformato le forme tradizionali in modo così fortemente personale che si può parlare di un reale superamento della tradizione, tanto importante e significativa da trasformare il compositore tedesco nel fondatore della musica moderna.

La sordità fu un fattore decisivo per l’evolversi del suo carattere e di conseguenza per lo stile della sua musica sia nel periodo di mezzo che per la sua produzione matura. Per comprendere la gravità della disgrazia, dalla quale Beethoven si vide minacciato sin dall’età di ventisette anni, bisogna tenere presente che egli era soprattutto un artista di professione, un virtuoso di pianoforte. Giovanissimo era stato un ammirato maestro di pianoforte, e i viaggi da lui fatti a Praga e a Berlino nel 1796 si potrebbero considerare come vere tournée concertistiche: proprio per questa sua arte e maestria il compositore tedesco trovò rapido accesso anche nei circoli della nobiltà viennese. Quando si manifestarono i primi sintomi dell’incipiente sordità egli si vide costretto a rinunciare al sogno della carriera pianistica. Così si chiuse per lui il mondo della società viennese, e il lato espansivo della sua personalità morì definitivamente, lasciando spazio a quel carattere brusco e solitario che diventò una peculiarità per il resto della sua vita, ma in cui lui stesso non si riconobbe mai. Nonostante «rozzezza e scortesia» di cui era ben consapevole («In Sassonia si dice dunque “villano come un musicista” e questo si adatterebbe bene al mio caso», scrive il 28 febbraio 1812), coltivò amicizie sincere e profonde e durature, che lo porteranno a dire di Karl Amenda, in una lettera del 1804 a Ferdinand Ries: «Da circa sei anni non sappiamo niente l’uno dell’altro, eppure io sono certo di occupare sempre il primo posto nel suo cuore, come lui lo occupa nel mio». La sua giovinezza si interruppe bruscamente ed egli diventò, come affermò lui stesso, «filosofo a ventott’anni». Soltanto la natura, la bellezza conferitale da Dio e le sue composizioni gli impedirono in quel tempo di abbandonarsi alla disperazione, anzi gli diedero la forza, come spesso ha scritto, di vivere per l’arte, e soltanto per l’arte: «Se tutto il resto mi sarà negato, potrò nuovamente trovare conforto nella natura e subito anche nella mia arte paradisiaca, il solo e vero dono divino del Cielo» (28 febbraio 1812).

Una delle prime attestazioni della sordità di Beethoven è contenuta in una sua lettera del 29 giugno 1801, indirizzata all’amico medico Franz Gerhardt Wegeler, dove l’artista, accanto alla soddisfazione per il successo delle sue opere, accenna al male, fino ad allora tenuto nascosto e che lo avrebbe portato in breve tempo al totale isolamento dal mondo:

 « Mi rivedrete alquanto ingrandito. Non solo mi troverete più grande come artista, ma migliore e più completo come uomo; […] Le mie composizioni mi rendono molto, e posso dire quasi di avere più ordinazioni di quante ne possa soddisfare. Per ogni mio lavoro ho sei, sette editori e ancora più se mi premesse d’averne; non si discute più con me; io chiedo e loro pagano. […] Purtroppo un demone invidioso, la mia cattiva salute, mi ha messo i bastoni fra le ruote; voglio dire che da tre anni il mio udito si è fatto sempre più debole e ciò sarebbe causato dall’affezione intestinale, della quale soffrivo, come sai, fin da quel tempo; ma qui è assai peggiorata, essendo io continuamente afflitto da dissenteria e per conseguenza da una straordinaria debolezza. Frank ha cercato di tonificare il mio corpo con ricostituenti e il mio orecchio con olio di mandorla; ma prosit, nessun risultato; l’udito è andato sempre peggiorando e il malessere intestinale è rimasto tal quale; così è durato fino all’autunno dell’anno scorso con mia disperazione. Poi un asinus medico mi consigliò, come cura, il bagno freddo; uno più intelligente il comune bagno tiepido del Danubio; questo fece miracoli; anche l’intestino migliorò, ma l’udito rimase lo stesso, se non peggiorò. […] Le mie orecchie ronzano e rombano di continuo giorno e notte. Posso proprio dire di condurre una vita da derelitto; da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non è possibile dire alla gente che sono sordo. Se esercitassi qualsiasi altra professione la cosa sarebbe più facile; ma con la mia professione questa è una condizione terribile! E i miei nemici, il cui numero non è piccolo, che cosa ne direbbero? – per darti un’idea di questa strana sordità, ti dirò che a teatro mi devo mettere proprio accanto all’orchestra per intendere gli attori. I toni acuti degli strumenti e dei cantanti, se sono un po’ più lontano, non li sento più. Nella conversazione è stupefacente che vi sia della gente che non se ne sia accorta; data la mia fama di distratto, mi si ritiene per tale. Talvolta anche odo appena chi parla piano; odo i suoni ma non le parole; eppure mi è insopportabile se qualcuno grida. […] di questa mia condizione ti prego di non dir nulla a nessuno, […] solo come segreto te lo confido» .

 Nonostante la lesione del nervo acustico che col tempo lo avrebbe portato alla completa sordità, il senso del suono era chiarissimo e non solo gli permise fino agli ultimi istanti di immaginare i suoni e i toni, ma addirittura di sublimarli. Quando compose la quarta Sinfonia, nel 1806, Beethoven non aveva ancora quarant’anni, ma già da tempo non percepiva più né le voci né i suoni. Egli riusciva appena a intuire ciò che suonava solo tenendo tra i denti l’estremità di una bacchetta di legno e poggiando l’altra estremità sulla cassa di risonanza del pianoforte per percepire le vibrazioni.

Nel 1822, durante una prova generale del Fidelio (l’unica opera lirica di Beethoven), apparve evidente sin dal duetto del primo atto che egli non sentiva assolutamente nulla di ciò che si cantava sulla scena: l’orchestra suonava e i cantanti andavano per conto proprio. Ne scaturì una confusione generale, e l’amico (e biografo) Anton Schindler gli fece capire che non poteva dirigere l’orchestra.
Nel 1824, al termine della prima rappresentazione della nona Sinfonia, il contralto Caroline Hunger fu costretta a prenderlo per le spalle e voltarlo verso il pubblico perché si rendesse conto che lo stavano applaudendo freneticamente.

Fino a quando gli fu possibile, però, Beethoven cercò di nascondere il suo male, che sarebbe iniziato interessando dapprima l’orecchio sinistro e poi quello destro. «Ciò che ti ho detto del mio udito ti prego di custodirlo come un grande segreto e di non confidarlo assolutamente a nessuno», scriveva nel luglio del 1801 al pastore Karl Amenda, suo amico e confidente:

 « Quante volte vorrei che tu fossi accanto a me, perché il tuo B. ha una vita molto infelice, in lotta con la natura e il Creatore, lo ha già più di una volta maledetto perché ha completamente abbandonato le sue creature al caso che spesso annienta e spezza i fiori più belli. Sappi che la parte più nobile di me, il mio udito, è molto scemato. Sin da quando eri ancora con me avevo notato qualche sintomo, ma non ho mai detto niente, ora è andato sempre peggiorando, se potrà di nuovo tornare normale è da vedersi, […] Che tristezza dover vivere ora così, evitando tutto ciò che amo e mi è caro […]. Oh come sarei felice ora se il mio udito fosse perfetto! Mi precipiterei da te, così invece devo tenermi in disparte da tutto, i miei anni più belli voleranno via senza ch’io possa compiere tutto ciò a cui il mio talento e la mia forza mi avrebbero predestinato. – triste rassegnazione nella quale devo pur trovare il mio rifugio; mi sono proposto, è vero, di essere superiore a tutto, ma come sarà possibile?» 

 Alla fine del 1801 lo stato generale di salute di Beethoven sembra migliorare, nonostante le folli cure dei medici, ma è soprattutto lo spirito a stare meglio: merito di una donna, Giulietta Guicciardi, di cui l’artista è profondamente innamorato e che sembra ricambiare il sentimento. In una lettera del 16 novembre 1801 Beethoven confida ancora all’amico Wegeler:

 « Da alcuni mesi Wering mi fa applicare alle braccia dei vescicanti, fatti, come saprai, di una certa corteccia; è una cura enormemente sgradevole perché, senza contare i dolori, sono completamente privato per alcuni giorni dell’uso delle braccia (prima che la corteccia abbia avuto sufficiente effetto); è anche vero, non lo posso negare, che il ronzio e il rombo sono meno forti del solito, specialmente all’orecchio sinistro, da dove è partita la malattia, ma certo il mio udito non è per nulla migliorato, quasi mi sembra che sia diventato anzi più debole. – Quanto ai disturbi intestinali, le cose vanno meglio, in particolare mi basta fare i bagni tiepidi per qualche giorno, per sentirmi meglio per più di una settimana. […] La mia vita è diventata ora più piacevole, perché frequento di più la gente; non puoi immaginare il senso di vuoto e la tristezza che mi hanno accompagnato in questi due ultimi anni, la debolezza d’udito mi perseguitava ovunque come uno spettro e io fuggivo gli uomini; dovevo apparire misantropo, io che invece lo sono così poco; questo mutamento lo ha prodotto una cara, incantevole ragazza, che mi ama e io amo, in due anni sono questi i soli momenti beati ed è la prima volta che sento che il matrimonio potrebbe renderci felici; purtroppo essa non è del mio ceto sociale e ora non mi potrei davvero sposare […] Se non fosse per l’udito, già da molto tempo avrei girato mezzo mondo, come sarebbe mio dovere. Per me non esiste gioia più grande che quella di esercitare ed esibire la mia arte […]. Che cosa mi fu dato in quella bella regione che è il mio paese, altro che la speranza in una situazione migliore, l’avrei avuta senza questo male – libero da esso, avrei voluto abbracciare il mondo, la mia gioventù – sì, lo sento, comincia ora soltanto, non sono sempre stato un infermo, la mia forza fisica aumenta da qualche tempo più che mai e così pure la mia forza spirituale […]. Potessi liberarmi solo a metà del mio male! […] Voglio afferrare il destino alla gola, non riuscirà di certo a piegarmi totalmente. Oh, è così bello vivere mille volte la vita! Per una vita tranquilla, no, lo sento, non sono più fatto» .

 Ma Giulietta, la bella giovane esuberante fanciulla per cui Beethoven scrisse la Sonata «Chiaro di luna»,  sposò un altro, e Beethoven ricadde nella disperazione.
Nel 1802, insoddisfatto delle cure e dell’atteggiamento del suo medico («in generale sono molto malcontento di lui: prende una malattia come la mia con troppa noncuranza e durezza, se non andassi io da lui, e questo mi costa già molta pena, non si farebbe mai vedere»), Beethoven lasciò dottor Wering, e si rivolse al dottor Schmidt. Questi gli consigliò immediatamente un lungo riposo in campagna, in isolamento completo, lontano dai rumori.

Fu durante questo soggiorno ad Heiligenstadt (vicino a Vienna) che Ludwig scrisse il famoso testamento (6 ottobre 1802), una lunga lettera ai fratelli Carl e Johann, mai spedita e ritrovata solo dopo la morte del compositore, in cui aveva confessato tutta la sua pena considerando la sua sordità (che faceva risalire al 1796) una situazione disperata per un musicista, e descrivendo tutte le frustrazioni che gli provocava, la depressione, e la sua incapacità di intrattenersi con la gente.

 « O voi uomini che mi credete ostile, scontroso, misantropo o che mi fate passare per tale, come siete ingiusti con me, non sapete la causa segreta di ciò che è soltanto un’apparenza, il mio cuore e la mia mente erano sin dall’infanzia inclini al tenero sentimento della benevolenza, e avrei anche sempre voluto compiere grandi azioni, ma pensate solo che da sei anni sono colpito da un male inguaribile, reso più grave da medici insensati che mi hanno ingannato anno dopo anno facendomi sperare in un miglioramento illusorio, con la prospettiva finale di una menomazione permanente (la cui guarigione durerà magari anni se non è addirittura impossibile). Nato con un temperamento ardente e vivace, persino aperto alle distrazioni della vita sociale, ho dovuto presto isolarmi, vivere in solitudine, ogni tanto ho ben cercato di superare tutto ciò, ma l’esperienza doppiamente mortificante del mio cattivo udito mi ha duramente richiamato alla realtà, come avrei infatti potuto dire agli uomini: parlate più forte, gridate, perché sono sordo, come poter confessare la debolezza di un senso che dovrei possedere molto più degli altri, un senso che un tempo possedevo in realtà al più alto grado di perfezione, come pochi altri del mio mestiere possiedono o hanno mai posseduto – no, non lo posso fare, perdonatemi quindi se mi vedrete stare in disparte là dove invece mi mescolerei così volentieri con voi, la mia disgrazia mi fa doppiamente male perché vengo inoltre malgiudicato, per me il piacere di stare in mezzo alla gente, di partecipare a conversazioni intelligenti, a proficui scambi di vedute, non esiste, e quando è veramente indispensabile avere a che fare con la società, devo restare quasi completamente solo, vivere come un esiliato, se mi avvicino a qualcuno, sono subito terrorizzato al pensiero che possa in qualche modo accorgersi della mia condizione – così è stato negli ultimi sei mesi che ho trascorso in campagna seguendo il consiglio del mio bravo medico di affaticare i miei orecchi il meno possibile, egli veniva così incontro alle mie attuali inclinazioni, anche se di tanto in tanto mi sono lasciato sviare dal mio istinto socievole, ma che umiliazione quando qualcuno accanto a me udiva di lontano il suono di un flauto e io nulla o qualcuno udiva un pastore cantare e io sempre nulla, questi fatti mi portavano al limite della disperazione e poco ci mancò che non mi togliessi la vita: solo l’arte mi ha trattenuto dal farlo; mi è parso impossibile lasciare questo mondo prima di avere pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace, così ho prolungato questa vita miserabile – veramente miserabile, un corpo così sensibile che qualsiasi cambiamento un po’ brusco può trasformare il mio stato di salute da ottimo a pessimo – pazienza – proprio così, devo sceglierla come guida, così ho fatto, spero che questa mia risoluzione resista finché le inesorabili parche vorranno spezzare il filo, forse andrà meglio, forse no, sono preparato – a ventott’anni essere costretto a diventare filosofo non è facile, per un artista è ancora più duro che per qualsiasi altro uomo. Divinità tu vedi dall’alto il fondo della mia anima, sai che amo gli uomini e desidero fare il bene, o uomini, se mai un giorno leggerete questo scritto, pensate al torto che mi avete fatto, e l’infelice si consoli di aver trovato qualcuno simile a lui, qualcuno che, malgrado tutti gli ostacoli della natura, ha fatto tutto il possibile per essere ammesso nella schiera degli artisti e uomini di valore – voi, miei fratelli Carl e [Johann], non appena sarò morto e se il Professor Schmidt sarà ancora in vita, pregatelo a mio nome di descrivere la mia malattia, e aggiungete a questa storia della mia malattia il presente scritto, in modo che almeno il mondo possa quanto più riconciliarsi con me; contemporaneamente vi dichiaro entrambi eredi del mio piccolo patrimonio (se così lo si può definire), dividetevelo onestamente e sopportatevi e aiutatevi l’un l’altro, ciò che avete fatto contro di me, lo sapete, ve l’ho già da molto tempo perdonato; a te mio fratello Karl, un grazie particolare per l’attaccamento che mi hai dimostrato in questi ultimi tempi; vi auguro una vita migliore e meno carica di affanni della mia, raccomandate ai vostri figli la virtù, essa sola può rendere felici, non il denaro, lo dico per esperienza; essa mi ha recato sollievo nella sofferenza, a lei, oltre che alla mia arte, debbo se non mi sono tolta la vita – addio e vogliatevi bene -; ringrazio tutti gli amici, in particolare il principe Lichnowski e il Professor Schmidt – gli strumenti del principe L. desidero che siano possibilmente conservati da uno di voi, beninteso senza che per questo vi disputiate; se peraltro potessero servirvi per altri scopi, vendeteli pure; sarei molto felice di potervi essere utile anche nella tomba – così fosse – con gioia vado incontro alla morte – ma se essa mi coglierà prima che abbia avuto occasione di sviluppare interamente i miei talenti artistici, sarebbe per me, malgrado il mio duro destino, troppo presto e vorrei che venisse più tardi – e tuttavia sarei contento lo stesso, non mi libererebbe forse da uno stato di infinita sofferenza? – Vieni quando vuoi, ti vengo intrepidamente incontro – addio, non dimenticatemi completamente quando sarò morto, me lo sono meritato perché nella mia vita ho spesso pensato di rendervi felici, e dunque siatelo.
Heiligenstadt, 10 ottobre 1802 – prendo così congedo da te – e con quanta tristezza – da te amata speranza – con la quale sono qui venuto, nella prospettiva di una almeno parziale guarigione, ora mi deve abbandonare completamente, come cadono appassite le foglie d’autunno, così anch’essa si è per me disseccata, me ne vado – quasi nello stato in cui ero al mio arrivo – persino il coraggio superbo – che spesso mi sosteneva nelle belle giornate estive – è svanito – o Provvidenza, concedimi una volta un puro giorno di gioia – è da tanto tempo che la mia anima non ode più l’intima eco della vera gioia – o quando, o Divinità – quando proverò di nuovo la gioia nel tempio della natura e degli uomini – Mai? – no – oh, sarebbe troppo crudele» .

 Tuttavia, a provocare la crisi che lo portò a scrivere il Testamento di Heiligenstadt non fu solo la consapevolezza che la sua sordità fosse inguaribile. Amici e conoscenti testimoniarono infatti le frequenti malattie addominali del compositore, che lo portarono probabilmente a pensare di essere vicino alla fine.

Trascorsi i sei mesi di riposo prescritti, verrà sottoposto alle cure più diverse, ma senza alcun giovamento: lavaggi saponosi, suffumigi, diuretici, sudoripari, vescicanti, acque termali.

Ricorrerà invano anche all’omeopatia, nonché al galvanismo, una cura a base di corrente elettrica continua con cui il dottor Schmidt sosteneva di aver guarito un bambino berlinese affetto da sordomutismo e un uomo che aveva sofferto per sette anni di sordità. Ludwig seguirà questo trattamento sino alla morte di Schmidt, al quale dedicherà il Terzetto Op. 38.

A poco serviranno i cornetti acustici, per i quali trovò un costruttore abilissimo nel meccanico di Corte Johann Nepomuk Mälzel, inventore del metronomo e del Panharmonicon, uno strumento musicale meccanico, una specie di piccola orchestra in miniatura, per la quale Beethoven scriverà inizialmente La Vittoria di Wellington. Tra il 1812 e il 1814 Mälzel costruirà per il compositore vari cornetti acustici. Solo nel 1812 gliene preparò quattro, dei quali il più piccolo aveva una lunghezza di 10 centimetri, il più lungo di 50. Tuttavia Beethoven utilizzò un solo cornetto per l’orecchio sinistro, perché il destro era già completamente sordo.

Oltre ai problemi di udito, nelle lettere scritte tra il 1801 e il 1824 Beethoven parla spesso di vari disturbi, soprattutto di carattere intestinale ma non solo: «malessere generale, cefalea, catarro, febbre, infezione intestinale» sono i disturbi più frequenti. Quanto le cure e i suggerimenti dei medici fossero efficaci si intuisce da un accenno che fa del suo stato di salute all’arciduca Rodolfo in una lettera del marzo 1811: «Già da più di due settimane sono di nuovo afflitto da un terribile mal di testa, speravo sempre che il dolore diminuisse, ma invano. Ora, però, che le condizioni del tempo sono migliorate, il mio medico mi ha promesso una rapida guarigione». Tuttavia non solo i miglioramenti non furono rapidi, ma la sua continua fiducia in una guarigione completa si scontrò nuovamente con la realtà, tanto che fu costretto a continui viaggi presso le note stazioni termali della Germania: Töplitz, Baden, Rodaun, Karlsbad, Franzesbrunn.

Gli unici sprazzi di felicità concessi a Beethoven furono gli amori, ai quali si abbandonava completamente e incondizionatamente: l’amore appassionato «contro le leggi esteriori della convenienza» per la contessa Josephine Deym nata von Brunswick lo sollevò, come era accaduto in precedenza con altri amori, dall’abisso di solitudine e amarezza in cui l’aveva gettato la sordità:

 « è vero che io non ho lavorato quanto avrei dovuto, ma una pena segreta mi ha a lungo privato della consueta energia, per qualche tempo, da quando ha cominciato a germogliare in me il sentimento dell’amore per lei, mia adorata J., questa pena è ancora aumentata. Non appena potremo di nuovo stare insieme indisturbati, dovrà sapere tutto delle mie reali sofferenze e della lotta che ho combattuto tra la vita e la morte. C’è stato un avvenimento che per lungo tempo mi ha fatto dubitare di poter mai essere in qualche modo felice su questa terra. Ora però le cose non sono più così brutte, io ho conquistato il suo cuore, oh so bene quanto sia prezioso. La mia attività aumenterà di nuovo e, glielo prometto solennemente, fra breve mi rivedrà più degno di me e di Lei. Oh se solo potesse apprezzare il fatto di costruire – di accrescere – la mia felicità con il Suo amore! Oh amata Josephine, non è l’attrazione per l’altro sesso che mi spinge verso di lei, no, è solo Lei, il Suo Io intero con tutte le Sue qualità. […] Tanto, tanto tempo possa durare il nostro amore: è così nobile, così profondamente fondato sulla reciproca stima e amicizia. Anche il fatto che ci assomigliamo in tante cose, nel modo di pensare e di sentire, mi fa sperare che il suo cuore batterà a lungo per me. Il mio potrà solo cessare di battere per Lei quando non batterà più, amata J.»

 L’amore, iniziato nel 1805, si concluse alla fine del 1807; ma un’altra passione, ancora più profonda  e sconvolgente, emerse nel 1812, anno a cui si fa risalire una famosa lettera «all’amata immortale», una donna, probabilmente sposata, di cui ancora non si conosce l’identità:

 « A letto i miei pensieri sono già rivolti a te, mia amata immortale, ora lieti, ora di nuovo tristi, nell’attesa che il destino esaudisca i nostri desideri – posso vivere soltanto unito strettamente a te, non altrimenti, sì, ho deciso di errare lontano finché non potrò volare nelle tue braccia e sentirmi perfettamente a casa, accanto a te, e lasciando che la mia anima, circondata del tuo essere, entri nel regno degli spiriti – purtroppo così deve essere – ti rassegnerai, tanto più conoscendo la mia fedeltà verso di te, nessun’altra donna potrà mai possedere il mio cuore, mai – mai – Oh Dio, perché doversi allontanare dall’oggetto di tanto amore? La mia Vienna è ora miserevole – il tuo amore ha fatto di me il più felice e nello stesso tempo il più infelice degli uomini – alla mia età avrei bisogno di vivere in modo uniforme, senza scosse. Ma è ciò possibile nella nostra situazione? Angelo mio, […] solo contemplando con serenità la nostra esistenza potremo raggiungere il nostro scopo di vivere insieme – sii calma – amami oggi – ieri – quanta nostalgia, quanto rimpianto di te – di te – di te – mia vita, mio tutto, addio! Ti prego continua ad amarmi, non smentire mai il cuore fedelissimo del tuo amato. Eternamente tuo – eternamente mia – eternamente nostri» .

 Le condizioni di salute restavano però critiche, e a soli sei giorni dalla lettera all’amata immortale, dopo aver terminato la Settima Sinfonia, scrisse da Töplitz: «Io vivo solo, solo, solo, solo».

In questo periodo Beethoven aveva fatto ricorso al dottor Giovanni Malfatti, un medico di origine italiana considerato tra i migliori di Vienna, che gli consigliò di proseguire con il magnetismo (ma senza nessun risultato), con le cure termali e con le diete (per i disturbi intestinali) a base di zuppa di pane, carne di vitella, pesce e uova sode.

Tuttavia, forse per l’insuccesso di queste terapie, forse anche per «l’atteggiamento poco onesto del suo furbo italiano dottor Malfatti», il rapporto medico-paziente si incrinò sino al litigio e alla rottura.

Sarà il dottor Staudenheim, curante del Kaiser, a prendersi cura di Beethoven. La prima misura che prese fu quella di vietargli l’uso degli alcolici.

Ma l’udito continuava a peggiorare e Ludwig per comunicare era costretto a servirsi di un taccuino, sul quale scriveva domande e risposte: sono i famosi Konversationshafte (Quaderni di conversazione), che, in parte salvati e pubblicati per un totale di oltre undicimila pagine, costituiscono una fonte documentale di incalcolabile valore sugli ultimi anni del compositore tedesco.
Questa preziosissima fonte presenta naturalmente ampi vuoti, dal momento che, alle domande scritte dei presenti, Beethoven rispondeva a voce, come a voce erano tutte le sue domande.
Responsabile invece dell’assenza di molto materiale è lo stesso Anton Schindler, il quale distrusse la maggior parte dei 400 quaderni, lasciandone integri soltanto 137, venduti poi alla Reale Biblioteca di Berlino. 
In uno di questi quaderni (1823) il fratello Johann, farmacista, appuntava una ricetta: «Dovresti prendere un po’ di rabarbaro, e seguire una dieta molto curata, priva di pesce. La tua diarrea proviene dal gran mangiare e bere acqua».
Un altro medico, il dottor Karl von Smetana, così gli annotava: «Contro il dolore deve prendere solo un paio di volte al giorno della mucillagine d’orzo. La diarrea si attenuerà se lei non mangerà di giorno cibi poco digeribili, e se a tavola berrà vino rosso con acqua».

L’idropisia, di cui oggi si sa che è per lo più il sintomo di una malattia maligna, denunciò in modo minaccioso negli anni dopo il 1825 l’imminente fine del grande paziente. Alla fine del 1826 si sviluppò così rapidamente che furono necessarie tre punture a breve distanza. Ma tutte le cure dei medici non valsero più ad arrestare il declino, tanto che essi decisero a sospendere tutte le restrizioni alimentari (tra cui gli alcolici). L’effetto psicologico fu magico, e Beethoven, con un improvviso miglioramento, riprese a lavorare alla Decima Sinfonia.

Alla fine dello stesso anno Beethoven si ammalò di polmonite. Passeranno tre giorni prima che qualcuno lo visiti: i due suoi ex medici Braunhofer e Staudenheim, irritati dal suo irascibile comportamento nei loro riguardi, si rifiuteranno di accorrere al suo capezzale.

Anche se la polmonite si risolse in una settimana, le condizioni generali di Ludwig rimasero molto gravi, tanto da lasciarlo senza speranza.

Il 23 marzo 1827, dopo aver firmato con mano tremante il testamento, nel quale nominò erede universale il nipote Karl, si rivolgerà ai presenti: «Plaudite amici, finita est comoedia!».

Morì alle 18.30 del 26 marzo, mentre un temporale accompagnato da una tempesta di neve infuriava sulla città. Tre giorni dopo, ventimila persone seguiranno il feretro.

  

Bibliografia essenziale

Per le vicende cliniche e l’analisi delle varie patologie di B. si veda L. Sterpellone, Pazienti illustrissimi, Delfino 1991. Un’accurata analisi biografica e critica si legge in W. Rainer, Beethoven, traduzione di E. Fumaioli, Roma-Milano (collezione Giano) 1967; le citazioni delle lettere sono tratte da L van Beethoven, Epistolario, a cura di S. Brandenburg, traduzione di L. Della Croce, Skira 1999; quelle dei diari da M. Solomon, Il diario di Beethoven, presentazione di C. Casini, Mursia 1992.