Stabat Mater

Alessandro Scarlatti (1660-1725) e Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736)

Il Marchese Di Villarosa, primo biografo di Pergolesi, ci informa nel 1831 che fu una confraternita, i Cavalieri della Vergine dei Dolori, a commissionare nel 1734 al giovane compositore una nuova versione dello Stabat Mater. La nuova composizione avrebbe dovuto sostituire quella ormai "fuori moda" del Cavaliere Alessandro Scarlatti, commissionata dalla stessa confraternita probabilmente durante gli anni del suo secondo soggiorno napoletano, tra il 1708 e il 1717.

Queste composizioni venivano allora utilizzate durante le funzioni nella chiesa di S.Luigi di Palazzo a Napoli ogni venerdi del mese di marzo. Ma fu forse lo stesso duca Marzio Domenico dei Carafa Maddaloni ad aver commissionato a Pergolesi, che in quegli anni era al suo servizio, l'opera in questione. Sappiamo inoltre che il compositore stentò a giungere alla fine del lavoro a causa di una forma di tubercolosi che già in quegli anni minava la sua salute. Pergolesi riuscì a terminarla a Pozzuoli, ospite del convento francescano, lavorando fino agli ultimi giorni che la malattia gli concesse. Questa lo tolse alla vita il 16 marzo 1736. Pergolesi aveva 26 anni.

La fama dello Stabat Mater di Pergolesi si diffuse rapidamente in tutta Europa.

Charles de Brosses, già nel 1739, lo descriveva come il capolavoro di quei tempi della musica sacra su testo latino e, scrivendo della "profonda scienza degli accordi" usata da Pergolesi, alludeva sicuramente alle prime battute del movimento di apertura.

Affiancare la partitura di Pergolesi con quella dello Stabat Mater di Alessandro Scarlatti porta ad interessantissime considerazioni estetiche, formali e timbriche.

Scarlatti, ad esempio, si preoccupa costantemente della naturalezza della condotta di una polifonia che molto raramente s'incontra su unisoni ma difende una scrittura estremamente densa (come testimoniano le riflessioni cartacee fra Ferdinando de' Medici e il compositore). Pergolesi dal canto suo utilizza frequentemente unisoni, riducendo a volte il tessuto musicale a due o tre parti, sperimentando quel "gusto" che diventava sempre più sensibile e reattivo alla melodia pura e semplice piuttosto che a un ingegnoso sviluppo polifonico e contrappuntistico.

Pergolesi inoltre si pose il problema della sacralità del testo e volle dunque inserire almeno due numeri in stile "osservato", usando cioè un linguaggio evidentemente contrappuntistico nel "Fac ut ardea" e nell'"Amen" finale. In effetti l'uso del fugato simboleggiava già allora, in quanto "stile antico", l'espressione "meccanicamente" sacra, attraverso una certa opulenza e maestosità.

Ma nei momenti drammaturgicamente più toccanti del testo entrambi i compositori si adeguano all'emozione con una retorica espressiva più vicina al teatro che alla musica sacra.